"il ritratto di Dorian Gray" di O. Wilde “Who want to live forever?” Si potrebbe sottotitolare con una famosa canzone dei Queen. Ma siamo sicuri che questo strafamosissimo romanzo di Oscar Wilde, datato 1890, parli solo della paura di invecchiare? Mi piacerebbe analizzare con voi il contenuto, sfogliando le pagine, fingendo di abbozzare una recensione. Si perché il gusto della scrittura dell’autore(ma ahimè solo parziale, visto che posseggo la sola copia tradotta in italiano), mi rimanda ad una più casalinga operazione di impasto, dove tutti gli elementi hanno necessità di venire uniti e mossi sia in un piano orizzontale, che pigiando, penetrando la materia per poi portarla alla luce con lo scopo di tornare ad impastare. Senza mai perdere quell’umidità necessaria per la lavorazione. Curioso sapere, che il romanzo uscì su due riviste inglesi, riscuotendo anche numerose critiche, tanto che Wilde venne persuaso a cambiare non solo alcuni dettagli della sua scrittura (come l’età del protagonista), ma anche ad aggiungere ulteriori capitoli, volendo - immagino - obbligare il lettore ad assistere ad una sorta di operazione chirurgica, nel quale nervi e carni potessero apparire nella loro densità, lasciando intravedere i tessuti presentarsi umidi e veritieri, quasi fossero la prova mancante per una maggiore comprensione. Il pathos che Wilde ci inietta a sapienti dosi nel raccontarci il contesto ed i pensieri degli “attori”, la si sente da subito dal profumo di rose in uno studio, mentre l’inchiostro scorre come una telecamera sulle stoffe persiane, sui quali si adagia il corpo pigro e vago del primo personaggio, lord Henry Wotton, ed i suoi pensieri vaporizzati in questa atmosfera ricca di odore acre e dolce al contempo (prova le numerose sigarette fumate), ed i dettagli che il suo occhio si sofferma a mirare, quasi distrattamente. Lo sguardo si poggia con la stessa lentezza di questi minuti indefiniti in un languido rimando di stampe giapponesi e giada. Ed in questi piani “tattili”, scopriamo che temporalmente, ci troviamo già con qualche passo avanti nella narrazione. Così, l’altro corpo abbandonato in questa stanza, insieme al ricco lord, il pittore Basil, ci racconta come ha incontrato colui che - trasfigurando il proprio desiderio d’artista - è divenuto il modello e cardine di questa opera; Dorian Gray. Seguitando lo sfogliare delle pagine, il pensiero dell’autore viene adottato da un altro attore del romanzo, il pittore Basil Hallward, quando afferma al suo amico, di essere stato inondato dalla bellezza del soggetto. Dalla sua presenza anche nei giorni precedenti e postumi il ritratto. Di quanto “la bellezza” possa amplificare ed acuire le percezioni, lo stupore, rendendolo palpabile ad occhi estranei attraverso la sua arte. Colpisce la frase quasi antitetica queste sue affermazioni: “ Odio i poeti che senza scrupoli vendono il proprio sentire, costruendo successi; Un artista dovrebbe creare capolavori ma nulla includervi della propria vita”, quasi che la segretezza e privatezza ne possano venir sbiaditi e sciupati in una sorta di condivisione convulsa. Ed è qui che troviamo la chiave di lettura di tutto il lavoro: la bellezza sbiadisce col tempo; porta a dover fare i conti in cuor proprio, di difettosità che inevitabilmente si presenteranno agli occhi dell’amante. Come se in questa disperata lotta alla resistenza, al voler avere intatti dei punti di riferimento, si opponesse “la mente”. Dorian Gray, questo bellissimo ragazzo, riflesso di numerosi sentimenti ed ispirazione di molti conviviali, viene sedotto dal desiderio che un’immagine, una porzione di sé distillata nel tempo, possa rimanere intatta. Immune alle avversità inevitabili del tempo. E per intercessione di uno strano destino, il nostro protagonista viene accontentato, lasciando l’immagine del quadro ad invecchiare, deturparsi, mentre il resto del mondo continua a mutare. Ma in una sorta di “vasi comunicanti”, mentre il ritratto si increspa col passare del tempo, lo spirito del protagonista si incupisce. Si intorbidisce. La bellezza e giovinezza esteriore, sono l’involucro di un uovo in putrefazione. Un’anima che non ha voluto considerare il tempo un valore, ma solamente un limite. La curva di un grafico in pendenza verso il basso. Il timore di invecchiare, è paradossalmente secondario alla storia. In realtà, ne è appena l’appiglio. Al di là di un finale tragico, mi rimane impresso lo stupore dello stesso protagonista, rispetto ad una appena percettibile consapevolezza di una sua stasi biologica degli altri. La loro percezione, rimane praticamente granitica, mentre il protagonista sente lo strazio, lo strappo e le lacerazione della propria anima condannata. Quindi, per voi cosa è la giovinezza? La “pelle”, i muscoli e le mollezze che il tempo ci presenta puntuale? Quel ritratto in realtà, non è il feticcio di una maledizione, il fulcro del racconto, lasciato segreto, in soffitta, al riparo da altri occhi. Il centro di tutto, è quella luce divenuta fioca di un palazzo apparentemente benestante. Forse solo la domus di un’abitazione divenuta impraticabile ed abbandonata dai propri occupanti, perché alla fine, lo stesso “involucro” racconta di noi, in questa eco sommessa, che è il rimando di un nostro desiderio atavico: temporeggiare. Non prendere posizione. Fare come se l’unico vero tesoro non esistesse. Come se questo metro di misurazione - effettivamente tutto umano - generato per renderci consapevoli di un ritmo e di relative occasioni per arare, seminare; la sapienza di riconoscere le giuste stagioni per avere il meglio, fossero altro che aliti e leggende. Il tempo è un valore, ed è esserne saggiamente consapevoli, è un vantaggio. Dorian sceglie di cristallizzare ciò che ha creduto “valore”, senza considerare che le rughe sono le lettere che comporranno le pagine della nostra esistenza. E la storia, spesso si dimentica di “tradizioni orali”. E noi con lei…
Christos
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una delle fotografie più note dell'autore
qui in alto: TRAILER : "il ritratto di Dorian Gray" del regista Oliver Parker (2009)